Rino Telaro

Non esistono né maestri né allievi. Solo persone con la gioia di condividere.

Profeta infallibile per alcuni, per altri “Cassandra rancorosa” e stratega dell’autocelebrazione, Guy Debord aveva visto giusto senz’altro su un punto: la separazione definitiva e dolorosa tra arte e vita reale. La tendenza dell’arte, vale a dire, a degradare  rovinosamente a “spettacolo” tra gli spettacoli, generando  orpelli da salotto, costosi feticci o gingilli da museo, immagini sublimate dell’accumulazione irresistibile del capitale, giunta a livelli mai vissuti prima nella storia dell’umanità.

La definitività della frattura riposava appunto in questo: che anche le avanguardie, da sempre protese nello sforzo di alimentare una simbiosi incancellabile tra arte e vita, si avviavano ormai a soggiacere alla grande mistificazione della caduta nel regno della merce.

Ma occorre procedere con ordine.

In principio era l’impulso creativo fine a sé stesso, inseparabile dall’essere umano colto nella sua essenza e dal suo (coessenziale) bisogno di emulare e asservire la natura ai propri scopi.  Presto l’impulso si caricò di pregnanze magiche e simboliche, passando stabilmente al servizio della collettività. Fu intorno ai simboli e ai simulacri di senso concentrati nei primi manufatti artistici complessi che si coagularono anche le prime comunità arcaiche. Poi si intensificarono gli scambi e nacque la moneta, e il prodotto artistico cominciò a seguire la sorte di tutti i derivati della tèkne immessi nel libero gioco della domanda e dell’offerta di mercato. L’artista dell’antichità era (con l’eccezione di poche realtà isolate, come la  Cina confuciana) poco più di un artigiano qualificato. Rifacendosi al Plutarco della “Vita di Pericle”, Gombrich segnala la sostanziale ambiguità mostrata dai Greci, per esempio, nel nutrire “ammirazione per le opere ben fatte, disprezzo per il lavoro manuale dell’artista”.

Da questo pregiudizio ci si comincerà a liberare solo nel Medioevo,   con la rivalutazione del lavoro manuale suggerita dalle  regole dei primi cenobi cristiani. Riacquistato relativamente tardi anche il diritto di “firma”, gli artisti figurativi conobbero la lunga e controversa stagione in cui le classi al potere erano ancora quelle più colte, e si  poteva   ambire ad esser venerati  alla stregua di vere pop-star ante litteram (si pensi ai casi di Michelangelo, di Raffaello o di Tiziano), ma sempre soggiacendo     ai dettami ed alle oscillazioni di gusto di una committenza contrattualmente molto forte, e sotto la sorveglianza più o meno rigida  di autorità  civili e religiose con potere di interdetto inappellabile.

Com’è  noto, il sisma si produsse sul finire del Settecento, e l’ epicentro si localizzò in Francia:  la grande committenza aristocratica e clericale franò sotto i colpi delle scosse rivoluzionarie.  Si definì, pertanto, in pochi anni quell’assetto che ha caratterizzato  fino a pochi decenni fa i rapporti fra arte, società e mercato: con il rafforzamento del sistema dei “salons” e delle istituzioni museali, la nascita dei primi fermenti movimentisti e delle gallerie private , l’emergere di avanguardie militanti e agguerrite che attaccavano il sistema rifiutando di produrre opere “appetibili” per i circuiti   museali e per la vituperata  società borghese.  Una èlite di intellettuali, critici e galleristi di ampie vedute provvedeva a legittimare “in tempo reale” il lavoro delle avanguardie, annettendovi di fatto “senso”e “valore”; e il mercato, con un ritardo quasi sistematico che si poteva sedimentare in anni o in decenni, finiva per adeguarsi a tali indicazioni.

L’arte, svincolata dalla pressione immediata delle istanze mercantili,  poteva coltivare così l’ambizione (per alcuni, l’illusione) di intrecciarsi con la vita reale condizionandola, di   suggerire alternative di senso sociale ed esistenziale, producendo continui scarti in avanti nella direzione di una temporalità verticale e utopistica. All’epoca degli “dei” e dei “giganti” della storia dell’arte aveva fatto seguito un’autentica epopea eroica, solcata più da falangi oplitiche, da regie collettive e manifesti comuni, che non da grandi individualità. L’ impulso sociale, prometeico dell’artista primitivo aveva guadagnato nuovo vigore in una prospettiva mutata: laica, immanente, progressiva.

Vi furono figure e collettivi, al culmine di questa epopea, che teorizzarono da prospettive diverse la totale fusione tra arte e vita, come  “Fluxus” o la stessa Internazionale Situazionista di Debord, o il movimento della “Happening art” di Allan Kaprow, seguito da numerosi epigoni.

Ma intanto il capitale iniziava a concentrarsi a ritmi vertiginosi, saturando silenziosamente tutti gli interstizi sociali, sgretolando    molti dei presidi culturali, ideologici, istituzionali,  che potevano fungere ancora da argine alla diffusione del pensiero unico in via di affermazione, supportato dal controllo sempre più pervasivo dei mezzi di comunicazione di massa. Già le transavanguardie degli anni ’80 (pur  orientate ad esiti apprezzabili sul piano estetico) sancivano, a ben vedere, la vittoria di una concezione nuova del tempo sociale: non più il tempo dinamico e “irreversibile” della storia, in cui  i popoli evoluti erano impegnati in uno sforzo dialettico di superamento continuo delle barriere culturali e delle criticità materiali, ma quello statico ed autoconcluso della postmodernità, della produzione e della crescita fini a se stesse, del consumo autoindotto, dell’intrattenimento non pedagogico ma puramente contemplativo.

In questo contesto stravolto, l’artista è di nuovo,  in maniera  più sordida del passato, un produttore di merce. L’unica alternativa che gli viene concessa è quella di divenire a sua volta uno stratega della comunicazione; una “vedette”, nel senso debordiano del termine (Cattelan, in Italia, ne è forse l’esempio più eclatante). Non è più il mercato ad inseguire l’arte nelle sue funamboliche evoluzioni stilistiche e concettuali, ma molto più spesso sono gli artisti ad inseguire il mercato, coadiuvati da quei formidabili segugi, da quei cani da riporto  che sono diventati i “produttori di valore” di un tempo (critici, galleristi, grandi curatori). Grazie alla loro intercessione sempre più invasiva, l’avanguardia è degradata a pura e  semplice accademia, mentre  le battiture d’asta delle starlettes del momento arrivano a superare quelle di maestri indiscussi e già storicizzati, generando bolle speculative effimere e pericolosissime. 

La verità è che i “produttori di “valore”  non sono più in grado di produrre “senso”, avendo smarrito ogni pulsione direzionale; e in qualche caso è persino palese la loro malafede, la  loro propensione  all’arbitrio assiologico. Più  si capillarizza presso le masse l’interesse per l’arte, più, paradossalmente, si attenua la  capacità di quest’ultima di far presa e di incidere sulla qualità del vissuto sociale. Si disarticola progressivamente, inoltre, il dialogo serrato e fecondo  che il comparto figurativo aveva sempre intrattenuto  con  la letteratura, la musica  ed il pensiero filosofico. L’arte si riduce sempre più a periferia della moda e  dello spettacolo.    Quel che è peggio, gli artisti perdono sempre più la capacità di far perno intorno a nuclei concettuali comuni. Il mercato impone competizione, individualità, propensione alla  identificabilità di “brand” comunicativi. Se un tempo era servita a suggerire vie di fuga, oggi l’arte corre il rischio di   limitarsi a decorare  i corridoi di una prigione.

Occorre superare la temporalità statica e asfittica nella quale siamo sommersi, recuperare la socialità dell’arte in una  ritrovata dimensione rizomatica e collettiva. Una delle strategie possibili è proprio quella di aggredire la centralità del   “brand”,  della “firma” d’artista,  enfatizzati dal mercato per poter confezionare i suoi feticci. Immaginare una nuova Preistoria, o  un nuovo Medioevo,  popolato da cenobi di volenterosi operatori della bellezza che mettono la loro manualità, il loro senso critico, la loro capacità immaginativa al servizio di comunità minacciate da impulsi barbarici e regressivi, spesso di natura autodistruttiva. 

Il “Manifesto Brut” sembra andare proprio in questa direzione. E l’aver associato il tema della “menzogna” alla collettiva di   esordio  del movimento, non fa che enfatizzare la forte vocazione sociale  di tutta l’iniziativa. Perché la propensione alla menzogna è la patologia suprema del potere contemporaneo. E Bellezza e Menzogna sono due divinità discordi che non potranno mai convivere sotto lo stesso cielo. 


Manifesto Brut di Hugues Henry

Manifesto Brut

“In tempi di menzogna universale, dire la verità è un atto rivoluzionario”

George Orwell

“In tempi di menzogna universale, vietare la menzogna è un atto rivoluzionario”

Manifesto Brut

Verità? Voi avete detto: “Verità”?

E se cercassimo di ristabilirla? Per esempio, lo sapevate che in Belgio, i bambini nascono sotto i cavoli?

Si dice anche che l’Atomo, “l’edificio più strano d’Europa” secondo la grande “tele reality” la CNN, non sarebbe altro che l’ingrandimento a 165 miliardi di volte di un cristallo di ferro, inventato dall’ingegnere André Waterkeym. No! Sarebbe la realizzazione in grande di qualcosa fatto con ramoscelli, paglia e cavoli di Bruxelles (ovviamente), che lo scienziato realizzò quando era ancora ragazzino.

André Waterkeym ha mentito. Si, si, si … fidati di noi!

Osereste gettargli una pietra per aver conservato per la posterità una piccola parte della sua immaginazione di ragazzo, nel 1958, quando entrava nel suo quarantesimo anno?

O nati sotto i cavoli o portati dalle cicogne, siamo confrontati con le bugie ancora prima di aver respirato la nostra prima boccata d’aria fresca.

Ricordiamocelo co umiltà per evitare di sentirci al di sopra degli altri!

Il Manifesto Brut rimette il contatore a zero.

Il Manifesto Brut ha scavato un solco, vi ha gettato i semi, li ha ricoperti di terra …

Il desiderio di ritrovare l’infanzia dell’arte. Tra immaginario e realtà.

Il Manifesto Brut ha scavato un solco, come per aprire una strada.

La voglia di andare avanti senza dissimulazioni.

“Leggete!” “Comprate” “Cedete!” “Consumate!”

Il modo imperativo sostenuto dalla stampa, avida di messaggi brevi, si è generalizzato e banalizzato. Messaggi corti, idee corte? Non necessariamente… Sarebbe contro la libertà di espressione, contro la poesia, contro la creazione… Ma non bisognerebbe invece vedere in quegli imperativi degli ordini imposti? Tanti ordini castranti per il nostro immaginario, allineati per farci avanzare in fila, per farci entrare nei ranghi di una società ogni giorno più levigata, così come lo deve essere la bugia, perfetta, per infiltrarsi senza ostacoli nella nostra coscienza.

La parola d’ordine diventa: “Dissimulate!”

Dissimulare per non essere respinti.

Dissimulare per trovare la normalità.

Dissimulare per poter far parte del desiderio della maggioranza.

Dissimulare per ingrossare il branco pronto a gettarsi giù dalla scogliera più alta per sfuggire le proprie convinzioni.

La menzogna è adulatrice! Lo psicologo americano Robert Feldman (università del Massachussetts) ci ha dimostrato che, fin dall’infanzia, siamo attirati dai bugiardi? Questi ultimi ne sarebbero talmente favorizzati da riservarsi i posti migliori sul podio delle carriere mediatiche e da lì sopra, ci bombardano con i messaggi adulterati della loro “realtà”.

La bugia si consuma come i piatti preparati. Uniformi, Insipidi, Imballati sotto vuoto.

Il Manifesto Brut ci tiene a ricordare che questi piatti preparati hanno una data di scadenza.

Il Manifesto Brut ci ricorda che se il naso di Pinocchio si ingrandisce troppo, prima o poi finirà per spezzarsi.

Se dovessimo appuntare con spilli su un muro, i concetti che motivano le menzogne, essi formerebbero un trio dove il cuore non avrebbe posto. Tre parole chiave che piuttosto aprire delle porte, le chiudono: sesso, soldi e potere.

Paradossalmente, tre elementi vincenti, il tris delle “migliori testate” dei giornali più venduti…

Paradossalmente, tre elementi tre elementi che hanno smascherato, molteplici dirigenti di diverse nazioni, i più grandi bugiardi di questi ultimi decenni e ancora fino a qualche giorno fa.

“L’arte è una bugia che ci permette di scoprire la verità”

Pablo Picasso

“L’arte è una verità che ci permette di scoprire la bugia”

Manifesto Brut

Il Manifesto Brut ha scavato un solco. Vi ha gettato i semi, li ha ricoperti di terra…

Questi semi, sono pronti a schiudersi. Veri e interi.

Autentici. Portatori di generosità, d’armonia e verità.

Una verità che il Manifesto Brut ha scelto di proteggere.

Nel nome della nostra libertà.


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